A pochi giorni dalla presentazione ufficiale dell’applicazione Wired per iPad (il vero e proprio primo kolossal del mondo delle app, con più di 500 mega da scaricare), è già tempo di riflettere se sia poi così necessario, da una parte, ricorrere a “pesi massimi” come questo, per rispondere alle esigenze degli utenti dei magazine digitali. Dall’altra, se non stiamo perdendo – almeno in parte – l’obbiettivo del “decentramento” promesso dal cloud computing, quel benevolo e fin’ora spesso osannato “federalismo” delle risorse informatiche.
La pensano così tanto John Gruber di Daring Fireball, quanto il brillante sviluppatore per “app phone” (come li definisce David Pogue del New York Times) Neven Mrgan. In particolare, quest’ultimo aggiunge alla preoccupazione per l’enormità dello spazio utilizzato in locale, quella per lo straordinario numero di inserzioni pubblicitarie, chiedendosi: “Quanto verrebbe a costare un numero privo di pubblicità?”.
La domanda principale, tuttavia, resta: possibile che una delle più accreditate e influenti voci della stampa mondiale affidi il futuro della sua comunicazione, per iscritto e per immagini, nell’epoca del cloud computing e compagnia bella, a un pachiderma come come l’app Wired? Questo, naturalmente, lo diciamo con tutto il possibile rispetto per lo squisito design di ogni sua singola animazione e/o transizione. Credo che non sia blasfemo o catastrofista rendersi conto che, anche all’interno di Condè Nast (lo stesso gruppo di Wired), non appena si esuli dal settore tecnologico, una rivista come GQ abbia ricevuto un’accoglienza abbastanza fredda dagli utenti iPad.