Ormai lo sanno tutti: la politica della segretezza è un elemento cardine della direzione impressa da Steve Jobs alla sua azienda.
Una strategia che, a tratti, assume caratteristiche più simili alla paranoia, quando vengono adottate misure di sicurezza al limite del grottesco, totalmente sproporzionate alle circostanze: in fondo, pensano in molti, Apple è nel mondo dell’informatica consumer, e non tratta materiali e tecnologia militarmente strategiche.
Il punto, tuttavia, è che questa secrecy policy non è, o almeno non è più, dettata dalla effettiva esigenza di riservatezza rispetto alle lunghe orecchie della concorrenza, ma ha ormai assunto il carattere di vera e propria strategia di mercato.
Dire poco o nulla, lasciare trapelare solo qualche vaga informazione si è dimostrato un metodo impareggiabile per creare hype, attesa, e trasformare un incontro stampa in un evento mediatico.
Prendiamo ad esempio l’ormai leggendario lancio di iPhone 3G: il risultato ottenuto da Apple è stato quello di far sapere praticamente a tutti del proprio prodotto senza spendere, almeno in Europa, un euro di pubblicità. Mai, per esempio, si era vista la notizia del lancio di un telefonino, per quanto rivoluzionario, riportata da tutti i telegiornali in prime time, almeno a mia memoria.
La secrecy policy, lo abbiamo visto, paga in termini di ritorno di immagine e sulle vendite iniziali di un dispositivo: questo possiamo considerarlo assodato e dimostrato dalla storia recente.
Ma la stessa storia recente ci insegna anche un’altra cosa: le vendite sul lungo periodo seguono regole totalmente diverse e, soprattutto, sono decisamente più refrattarie agli effetti dell’hype. Lo dimostra la salute attuale della piattaforma Mac, la cui diffusione si sta consolidando soprattutto grazie alle qualità del prodotto e al passaparola degli utenti: detto con una massima, non grazie alle aspettative, ma grazie alla soddisfazione degli utenti.
Entrambe le strategie, a modo loro, pagano e nel loro ambito si stanno dimostrando vincenti. Il problema, tuttavia, è un altro e probabilmente più serio.
Apple è una azienda quotata in borsa, sulla piazza di New York, e come tale deve sottostare alle regole imposte dall’ente deputato al controllo di questo settore, la SEC, equivalente a stelle e strisce della nostra Consob.
La SEC ha già bacchettato più volte Apple, a causa di diverse condotte poco chiare assunte dall’azienda: come l’affaire delle stock option, le obbligazioni distribuite al management di Cupertino e fiscalizzate in modo “creativo”. L’esito delle indagini approfondite condotte dalla magistratura USA non ha evidenziato dolo, ma la colpa rimane ed è stata pagata da Apple lasciando sul mercato una quantità di denaro considerevole, oltre al taglio di alcune teste importanti nella sua struttura finanziaria.
Ed ecco il nocciolo della questione, che si può riassumere in una parola: fiducia.
Tutto il mondo che gira intorno ad una azienda si basa sulla fiducia: quella degli investitori, quella degli sviluppatori, quella degli utenti/clienti.
Ma se i clienti/consumatori sono mediamente portati ad essere più indulgenti con queste tematiche, “distratti” dai contenuti tecnologici dei nuovi prodotti, le altre categorie sono costrette a guardare al sodo, compiendo scelte conseguenti.
E’ anche per questo motivo, infatti, se la “grande azienda” (fatta eccezione per la carta stampata per evidenti motivi tecnologici) si è finora tenuta alla larga da Cupertino: è difficile conciliare la propria strategia aziendale se si ignora quella dell’azienda con cui si stringe un accordo.
Per lo stesso motivo, poi, sono naufragate partnership importanti strette negli anni da Cupertino: con Motorola abbiamo assistito al fallimento più clamoroso.
Per finire, ma non è meno importante, c’è la fiducia degli investitori. Indipendentemente dalla dimensione e dalla composizione del proprio portafoglio azionario, un investitore ha sempre 2 obiettivi: guadagnare e preservare il capitale, programmando i propri investimenti in maniera adeguata.
E’ fin troppo ovvia la difficoltà di programmare l’investimento in una azienda delle cui strategie non si sa nulla, a causa della secrecy policy. E’ altrettanto facile, quando si è allo scuro del lungo termine, spaventarsi per congiunture sfavorevoli ed entusiasmarsi per quelle favorevoli, con una conseguente notevole instabilità del titolo azionario.
E così ci ritroviamo un AAPL dall’andamento spesso impazzito, che schizza in alto dopo un keynote, sprofonda quando circolano indiscrezioni infondate sulla salute del CEO e non si muove quando vengono presentati i risultati fiscali.
E’ una politica, quella finanziaria di Apple, totalmente basata su bilanci consolidati affiancati previsioni volutamente lacunose, tempestate da no comment a ripetizione. Anche gli analisti più esperti sono spesso in difficoltà, ritoccando continuamente previsioni e rating riguardanti Cupertino.
In questo periodo Apple è in salute, ha casse piene di denaro e le vendite sono incoraggianti: sono elementi che il mercato premia, ma che non contribuiscono a fidelizzare l’investitore. Questa fiducia rimarrà fino a che i risultati saranno positivi, e un eventuale tonfo a seguito di un eventuale trimestre in perdita è, a queste condizioni, inevitabile.
E un generico “guadagneremo meno per una transizione che non possiamo rivelare” non sarà mai sufficiente…