Il sogno di un iPhone interamente “Made in USA” sembra più lontano che mai, nonostante le pressioni politiche e le strategie commerciali messe in campo dall’amministrazione Trump. Con l’introduzione di tariffe doganali fino al 104% sulle importazioni dalla Cina, l’obiettivo dichiarato è quello di incentivare il rimpatrio della produzione tecnologica avanzata. Detto questo, il caso di Apple e della sua complessa rete di fornitori globali dimostra quanto questa visione sia difficile da realizzare.
La convinzione di Trump che la manodopera USA possa competere con quella asiatica è stata ribadita dalla sua portavoce Karoline Leavitt. Ciononostante, i dati e le analisi del settore raccontano una storia diversa. Già nel 2017, Tim Cook, CEO di Apple, aveva evidenziato il divario di competenze tecniche tra i due paesi. In Cina, si potrebbero “riempire stadi di ingegneri specializzati”, mentre negli Stati Uniti “non si riuscirebbe a riempire una stanza”. Questo gap è cruciale per comprendere le difficoltà di riportare la produzione degli iPhone sul suolo americano.
Un esempio concreto delle sfide logistiche ed economiche è rappresentato dal progetto del Mac Pro in Texas, avviato durante il primo mandato di Trump. Nonostante gli sforzi, i costi elevati e la difficoltà di reperire componenti chiave sul mercato interno hanno dimostrato i limiti di questa strategia. Oggi, nonostante i recenti investimenti annunciati da Apple, destinati principalmente alla produzione di server specializzati, non si intravede un futuro in cui la produzione di massa degli smartphone possa essere trasferita negli Stati Uniti.
La strategia tariffaria di Trump non si limita alla Cina, ma include anche paesi come Vietnam, Thailandia, India e persino l’Unione Europea. Questo approccio mira a ribilanciare la bilancia commerciale e a creare posti di lavoro nel settore manifatturiero americano. Apple sta già pianificando contromisure per mitigare l’impatto delle nuove tariffe, aumentando le scorte e diversificando le importazioni, in particolare dall’India.
Un’analisi di 404 Media ha definito l’idea di un iPhone interamente prodotto negli Stati Uniti una “pura fantasia”. La rete globale di fornitori di Apple, che si estende in oltre 50 paesi, è progettata per ottimizzare i costi e garantire una produzione su larga scala. La Cina, in particolare, non è solo un centro di produzione, ma anche un hub di innovazione tecnologica, con infrastrutture e competenze difficilmente replicabili altrove.
La questione non è solo economica, ma anche culturale e strutturale. Gli Stati Uniti hanno un sistema educativo e un mercato del lavoro che, al momento, non supportano una produzione tecnologica su larga scala. La mancanza di ingegneri e tecnici specializzati rappresenta un ostacolo insormontabile per un’azienda come Apple, che dipende da una precisione e da una velocità di esecuzione che solo la filiera asiatica può garantire.
Nel frattempo, il dibattito continua. Mentre Trump insiste sulla necessità di riportare la produzione in patria, gli esperti mettono in guardia sui rischi di un isolamento economico. La globalizzazione ha permesso ad aziende come Apple di prosperare, sfruttando le competenze e le risorse di diversi paesi. Tentare di invertire questa tendenza potrebbe avere conseguenze imprevedibili non solo per Apple, ma per l’intera economia statunitense.
In definitiva, il ritorno della produzione degli iPhone negli Stati Uniti non è solo una questione di volontà politica, ma di fattibilità pratica. Le sfide economiche, tecniche e logistiche rendono questo obiettivo altamente improbabile, almeno nel breve termine. In ogni caso, la discussione solleva importanti interrogativi sul futuro della manifattura e sulla capacità degli Stati Uniti di competere in un mercato tecnologico sempre più globalizzato.